La resilienza delle parole
I linguisti dicono che la lingua la fa l’uso. A me piace dire che bisogna avere rispetto per le parole, anche per quelle che non ci piacciono. E quando ad adottarle è una – poi più – comunità, e persino una intera società, l’unica cosa che occorrerebbe fare è ascoltarla (certo… è una parola: cosa potremmo farne?!) e cercare di capirla, perché ormai è diventata troppo ‘grande’ per poterla ignorare.
Non si può dire stia succedendo questo al temine resilienza, che ha visto levarsi schiere di detrattori, a volte anche violenti. Duole ricordare il caso di un piccolo comune italiano il cui sindaco ha persino emanato un’ordinanza che ne vieta l’uso e disposto una sanzione per i trasgressori.
Con tutto il rispetto per personaggi, in alcuni casi anche di alta levatura culturale, che si uniscono al coro degli anti-resilienti, e con molto poco rispetto (anzi, con vero e proprio moto di ribrezzo e di condanna) per qualsiasi atto che abbia il putrido odore della censura, credo che qualunque tentativo di imbrigliare le parole sia destinato a fallire, a restare … lettera morta.
E siccome non ci sto ad ascoltare passivamente le lamentele, più o meno motivate, di chi attacca questa parola, resilienza, ho provato a interrogare la Semiotica, che è quella disciplina che ha tra i suoi oggetti principali di indagine proprio le parole.
Cosa si nasconde in questa parola, come in molte altre? Una metafora: invisibile quanto potente strumento del linguaggio, ma soprattutto della facoltà umana della conoscenza, nel quale sono molti a inciampare, perché non ne comprendono il valore cognitivo.
La metafora è una similitudine solo parziale (ripeto: solo parziale!) tra due ambiti di conoscenza. Nel caso del concetto di resilienza, l’accostamento è tra il dominio della fisica e quello della psicologia di individui e gruppi sociali, in cui il secondo mutua dal primo il concetto di una specifica reazione a urti o stress esterni. In sintesi, questa reazione fa sì che il materiale che subisce lo stress si deformi ma non determini il rompersi della struttura.
Le metafore hanno il grande pregio di prendere un pezzo di realtà che facciamo ancora fatica a capire, e di provare a farcelo capire con la lente di ingrandimento di qualcosa che ci è molto più familiare. E, così facendo, opera un piccolo miracolo: ci fa procedere nella conoscenza di quello che prima ci era ignoto.
In particolare, incassare il colpo, resistere e reagire sono aspetti che ingrandiscono quel movimento di reazione, ma non eliminano tutto il resto della nostra umanità, che assorbirà l’urto e lo elaborerà come potrà. Siamo uomini, e non pezzi di metallo, e pur volendo non potremmo che reagire all’impatto con tutta la nostra fragile condizione di umanità. Per quanto bravi possiamo essere, la nostra non sarà mai una resilienza metallica o meccanica.
Se oggi usiamo così diffusamente questa parola è perché mettiamo sotto la lente di ingrandimento questo peculiare movimento di reazione in cui, dopo la pressione dell’urto, ci rimetteremo in piedi, ma non ritorneremo allo stato precedente. Di fronte a un urto dalla portata talmente ampia che ancora fatichiamo a inquadrarlo, e che proprio per questo ci ha presi in pieno prima che ce ne accorgessimo, forse, ora, è proprio questo ciò di cui abbiamo bisogno. Abbiamo bisogno di resistere e reagire, magari senza ancora poter capire bene come tutto quello che stiamo vivendo stia deformando la nostra struttura. Non sappiamo ancora quale sarà la nostra nuova forma, anzi, forse appunto per questo, ce lo stiamo saggiamente chiedendo.
Forse è questa la nostra priorità ora rispetto a tutto il resto: reagire e provare a capire come saremo dopo, magari contribuendo a modificarci, e a farlo nel migliore dei modi.
Forse faremmo bene ad ascoltare con attenzione questo bisogno e, semplicemente, averne rispetto. Come per le parole, che dicono tanto di noi. O, almeno, si sforzano di farlo. Ma le parole parlano e continueranno a farlo. Resilienti alle pressioni, affannose quanto improbabili, di chi le vorrebbe distruggere e far tacere.
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