“Brand Journalism doesn’t exist”
Questo testo appare nella Prefazione a Branded Content, di Chiara Landi, Carocci 2019.
Qualche giorno fa nella mia casella di posta arriva una newsletter intitolata: “Brand Journalism doesn’t exist”, “Il Brand Journalism non esiste”. La invia dagli Stati Uniti un collega ‘addetto ai lavori’, attivo in una nota società di Content marketing.
Da lì inizia uno scambio epistolare piuttosto serrato, condotto a suon di argomentazioni, esempi pro ed evidenze contro. Non entro qui nel merito della diatriba, rimbalzata tra un fuso orario e l’altro per qualche giorno. Ma è interessante segnalare che, quando si affronta un nuovo ambito di attività, ci sono sempre delle sacche di resistenza, anche tra professionisti del settore. Una volta tanto, come si vede, questo freno non è solo una peculiarità del nostro Paese che, in fatto di ‘cose digitali’, è stato sempre un po’ dipinto come retrivo (lo sarà poi stato così tanto?).
Ho sentito affermare da professionisti di rilievo di casa nostra che “il Brand Journalism è Comunicazione d’Impresa attuata con le tecniche del giornalismo”. Un po’ come dire che si possono utilizzare le tecniche, e quindi gli strumenti e le conoscenze teoriche, della medicina senza essere un medico o esercitare l’attività medica.
Indipendentemente dal fatto che si sostenga che il giornalismo di brand sia o meno giornalismo, non si può non portare rispetto alla renitenza di alcuni nei confronti di questo nuovo – sarebbe meglio dire ‘rinnovato’ – settore della Comunicazione, e non si può non provare a comprendere il disagio di chi, magari, ha abitato entrambi i tipi di redazione: quella dei giornali e quelle aziendali.
I “brand” non possono esercitare un’attività di ricerca della verità, si dice, perché sono di parte, e il loro lavoro di informazione è sempre marchiato da un originario conflitto di interesse. Come se un reportage su una importante innovazione realizzata da un’azienda tecnologica potesse smettere di essere un reportage, semplicemente per il fatto che a raccontarla è l’azienda, ovvero la fonte stessa della notizia. Ma cosa succede se i fatti narrati restano verificabili e a disposizione di ulteriori narrazioni da parte di altri soggetti, tra cui, per esempio, i giornali?
D’altronde il giornalismo, anzi, il Giornalismo, è un’attività percepita di servizio pubblico (tant’è che si parla anche di pubblicistica), sebbene sia tipicamente condotta da un editore privato. Un soggetto che spesso non è neppure un editore puro, ma è impegnato in altre attività, di stampo non editoriale. Si pensi a Jeff Bezos, fondatore e amministratore delegato della famosa piattaforma di e-commerce Amazon, che ha comprato alcuni anni fa il mitico Washington Post (investendo in esso e rilanciandolo come prodotto editoriale). Oppure si pensi alle multiproprietà che sono in alcuni casi coinvolte in gruppi editoriali importanti, anche nostrani.
I giornali informano e – nel nostro Paese come altrove – lo fanno difficilmente in maniera neutrale, ma quasi sempre leggendo i fatti di attualità secondo una linea editoriale che dà un’impronta più o meno marcata al racconto dei fatti stessi. Non un vero e proprio ‘conflitto di interesse’, forse, ma probabilmente qualcosa di più sottile e velato, che mina però alla radice la pretesa oggettività dei fatti. “Transparency is the new objectivity”, “La trasparenza è la nuova oggettività”, tagliava corto già nel 2009 David Weinberger, filosofo e tecnologo che i media digitali li ha analizzati e descritti con acume già ai primordi della loro esistenza.
La faccenda si complica ulteriormente se è vero che “il giornale viene venduto due volte, una al lettore e l’altra all’inserzionista”, come commentava oltre un decennio fa l’attento studioso di giornalismo Paolo Murialdi.
Questi, pensate, sono solo i connotati (e le contraddizioni) del mondo dell’informazione tradizionale: un mondo che l’affermarsi del digitale ha shakerato con i suoi nuovi codici, scuotendolo dalle fondamenta prima ancora che gli stessi attori protagonisti potessero accorgersene. Il risultato è un mondo dell’informazione, e dei media in generale, completamente trasformato, e ancora per la verità parecchio frastornato. Una dimensione in cui hanno preso piede alcuni principi inediti, ma ormai nettamente evidenti: la frammentazione dei palinsesti mediatici degli utenti; la disgregazione del contenitore e dell’agenda dei messaggi, sempre più plasmati dalle audience; la convergenza di mezzi diversi sugli stessi temi.
Ne esce vittorioso il contenuto. “Content is king”, affermava in tempi quasi non sospetti il magnate dell’informatica Bill Gates. Il contenuto, nell’ecosistema digitale, può propagarsi con una propulsione virale oltre la cornice di colonne, pagine, piattaforme, canali. È fluido e, spesso, è lo stesso utente che se lo va a cercare, per poi commentarlo, validarlo o metterlo in questione, e poi trasmetterlo, magari reinterpretandolo, di fatto contendendo ai grandi broadcaster e alle più affermate media company il controllo dell’informazione.
L’aumentata disponibilità dei canali e dei mezzi di produzione ha fatto il resto, determinando una richiesta puntuale di risposte da parte dell’utente anche nei confronti di coloro che erano rimasti tradizionalmente dietro le quinte della scena mediatica: i cosiddetti – con termine oltremodo generico – brand.
Al di là del dibattito teorico, peraltro essenziale nel suo tentativo di illuminare i fenomeni, il mondo va avanti. E le cose accadono, che lo si accetti o no, per quanto ci si sforzi di pressarle all’interno delle vecchie, e ormai lacere, categorie.
(Per la cronaca, ho trovato un’ottima accoglienza rispetto al giornalismo di brand tra giornalisti e professionisti di diversa estrazione, spesso anche studiosi della materia.)
Quello che sta succedendo nel mondo del giornalismo d’impresa, che ha rotto i confini materiali degli house organ cartacei dilagando e amplificandosi nella Rete, si estende a tutti i tipi di contenuto di brand, da quelli più informativi a quelli più squisitamente di intrattenimento. Ambiti, questi, che non esauriscono tutta la sfera del branded content – pensiamo alle forme ibride, a cui spesso ci si riferisce con termini come infotainment o edutainment – ma ne possono verosimilmente individuare i due estremi, in relazione ai linguaggi adottati.
I contenuti di brand hanno una dignità culturale? Possono considerarsi elementi editoriali di serie A? O sono piuttosto dei sottoprodotti creativi, per quanto avanzati, frutto di strategie mirate di marketing, ed è dunque in quell’esclusivo ambito che li dobbiamo confinare?
L’analisi di Chiara Landi, tra le prime a occuparsi in maniera specifica e organica del settore in Italia, interpella, oltre ai professionisti, il pubblico. È lui che ha l’ultima parola, oggi più di ieri, come dimostrano le serie tv, in cui le stesse sceneggiature tengono sempre di più conto del feedback degli utenti, dimostrando che le storie appartengono alle comunità. È così sin dai principi dell’oralità, del resto.
Il punto allora non è tanto se si debba riconoscere un fenomeno ma, per i fruitori, capirlo e, per i produttori, indirizzarlo verso standard elevati, e accompagnarlo in uno sviluppo virtuoso, etico e sostenibile. Tutto questo nell’era del sovraccarico di messaggi, in cui sostenibilità vuol dire utilità per l’utente, ma anche impatto positivo sulle nostre scelte di cittadini, elettori, consumatori, persone.
Sappiamo bene che il “liberi tutti” della narrazione scatenato dai social media porta con sé dei rischi concreti di regressione culturale. Un processo che si spinge talvolta, nell’epoca della massima evoluzione tecnologica, fino alla messa in discussione della conoscenza codificata e universalmente riconosciuta dall’essere umano, che chiamiamo scienza. Una deriva che può essere arginata da tutte le forze (autorevoli) in campo.
È così che un brand che si occupa di salute, sia esso pubblico o privato, può contribuire a fare informazione smontando sul suo portale web le principali fake news medico-scientifiche attraverso contenuti dalla forma redazionale, come approfondimenti, interviste, tutorial, infografiche, cortometraggi o altro.
A volte sono proprio i brand, come quello che rappresenta un primario ospedale pediatrico italiano, ad arricchire di verità quella che veniva definita fiction: vere corsie, veri medici, veri pazienti. Un mix efficacissimo di informazione e intrattenimento che modifica in parte le logiche del vecchio contenitore narrativo. Un’operazione che l’assenza di un brand nella trama del racconto difficilmente avrebbe reso possibile.
La partita, come al solito, non si giocherà nei consessi tecnici e teorici, ma è nell’impatto che queste attività avranno là fuori, tra i pubblici, di nicchia o sterminati, che si farà la storia. E poco importa se i prodotti di questo lavoro viaggeranno su carta, nell’etere, su fibra ottica o 5G.
A noi, produttori, interpreti e utenti, spetterà lo sforzo di intraprendere un percorso di comprensione, proprio come quello, materializzatosi nelle pagine di questo libro, condotto con la ricerca, l’esercizio puntuale del pensiero critico e la freschezza intellettuale di chi, spogliandosi di ogni zavorra ideologica, cerca di capire nel profondo il suo presente.
Ne abbiamo tutti urgente bisogno.
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