Molly Russell: l’algoritmo social può uccidere. Perché ora dobbiamo intervenire
Tra addetti ai lavori si è parlato molto negli ultimi anni della cosiddetta ‘bolla cognitiva’ attivata dal funzionamento dei social media, che continuano a consigliarci contenuti simili a quelli che ricerchiamo e/o decidiamo di visualizzare. Questa spirale perversa, a lungo andare, rischia di rinchiuderci in una sfera (‘bolla’ appunto) mentale fatta di convinzioni rigide, e ci sta portando a derive come la polarizzazione delle discussioni, con l’elevarsi dei livelli di conflittualità sociale.
Il caso di Molly Russell, la quattordicenne che si è tolta la vita cinque anni fa dopo aver fruito insani contenuti online, ci apre gli occhi quasi con violenza su quanto possa essere nociva questa modalità di funzionamento delle piattaforme digitali, e su quanto non siano più rinviabili interventi di prevenzione e di deterrenza su più livelli.
I risultati della perizia lasciano poco margine alle conclusioni del medico legale Andrew Walker: gli oltre duemila contenuti sui temi del suicidio, dell’autolesionismo e della depressione fruiti negli ultimi sei mesi di vita dalla piccola Molly “hanno influenzato la sua salute mentale in modo non secondario”, contribuendo quindi di fatto alla sua tragica morte.
Il meccanismo secondo cui gli algoritmi delle piattaforme online ci suggeriscono contenuti simili a quelli che abbiamo già visto ha determinato, nel caso della quattordicenne, la riproposizione di contenuti che, sulla base delle ricerche da lei effettuate online, esaltavano gli atti di autolesionismo anziché scoraggiarli. Una vera e propria “ghettizzazione”, come l’ha definita il padre di Molly, che la piaccola non è più riuscita a rompere, e che le ha evitato di poter prendere in considerazione informazioni più positive e costruttive. Messaggi che avrebbero potuto aiutarla a considerare lo stato di disagio che stava attraversando per quello che è: qualcosa che si può curare e da cui si può uscire.
La responsabile del settore salute e benessere di Meta (la società proprietaria di Facebook e Instagram) Elizabeth Lagone ha dovuto riconoscere che “in alcuni casi erano state violate le regole della piattaforma e che alcuni contenuti non sarebbero dovuti essere disponibili”. Così come Judson Hoffman, responsabile global delle operations relative alla community di Pinterest, ha affermato, sempre nel corso del processo, che all’epoca il social network “non era sicuro”. Dichiarazioni che suonano estremamente tardive e ci portano a domandarci come mai, in oltre quindici anni di attività, non si sia posto l’accento sul tema della sicurezza in maniera almeno altrettanto importante rispetto a quello dell’utile economico.
Il pronunciamento della magistratura inglese è storico perché per la prima volta si mette in discussione il modo di operare delle piattaforme social. Una modalità che in tutti questi anni è stata improntata a un unico, o quanto meno preponderante, obiettivo: quello di aumentare il tempo di permanenza sulle piattaforme, ovvero di fruizione dei contenuti a pagamento (inserzioni pubblicitarie). In altri termini, al profitto.
Ora che, finalmente, lo abbiamo dichiarato nelle nostre aule di giustizia, è arrivato il momento di intervenire in maniera decisa per la prevenzione del rischio sulla salute e sul benessere, dei più piccoli e non solo, creato dalle piattaforme.
Agire su più livelli di prevenzione: regole, informazione, educazione
Occorre agire a livello legislativo, nazionale e internazionale, per imporre vincoli e trasparenza al funzionamento degli algoritmi online. Lo sostengo da tempo: anche se questo pone delle problematiche di tipo tecnologico, industriale e divulgativo, occorre trovare una modalità per rendere questi algoritmi ‘pubblici’.
Occorre avviare una sistematica attività di informazione e sensibilizzazione a livello di famiglie, affinché si adottino stili di vita corretti a difesa della salute mentale degli individui. Si tratta di promuovere abitudini che non contemplino più l’utilizzo bulimico e indiscriminato di questi mezzi. Come sostengono gli psicologi, i social media creano dipendenza in quanto agiscono a livello delle nostre risposte automatiche e dei livelli cerebrali più profondi, fuori dal nostro livello cosciente. Ovvio che, per fare questo, occorra prima di tutto rendere coscienti gli adulti, spesso loro stessi ancora molto lontani da questa consapevolezza.
La scuola, infine, in quanto primaria agenzia educativa volta a formare individui liberi e padroni delle proprie scelte, non può essere esclusa da una reponsabilità primaria in questo ambito, ma deve essere coinvolta attraverso l’adozione di misure standardizzate e condivise. Ritengo che la disconnessione nelle ore di lezione sia non soltanto fuori discussione (così come in era pre-digitale veniva vietato ai discenti di distrarci con attività e contenuti esterni a quelli della lezione in corso), ma anche un modo relativamente facile e immediato per spingere i ragazzi a disintossicarsi e a ricercare, anche autonomamente e fuori dall’orario scolastico, dei provvidenziali momenti di disconnessione, focalizzazione e rigenerazione. In altri termini, dei modi per tornare a contatto con se stessi, le proprie emozioni, il proprio (ben)essere.
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